Convincere un'impresa a usare i dati
Serve un promemoria operativo e servono poche abitudini pratiche. Per vincere le resistenze, per partire bene e per capire quali KPI contano davvero

Articolo di Luciano Canova, Divulgatore, autore di Economia dell’ottimismo (Il Saggiatore)


Artser Lab è il think tank di Artser e produce idee e contenuti, analisi ed approfondimenti per chi guida le imprese. 

A cura di Antonio Belloni, Head of research department Artser Lab.


Autore: Luciano Canova
Divulgatore, autore di Economia dell’ottimismo (Il Saggiatore)
Sitografia di interesse: https://www.oecd.org/en/about/programmes/piaac.html#publications
Consigli di lettura: Tim Harford, The Data Detective. Ten easy rules to make sense of statistics, Riverhead Books, 2021

«Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?” I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede “ma cosa diavolo è l’acqua?”».

Ecco: per molte PMI italiane i dati sono proprio quell’acqua come nel celebre aneddoto di David Foster Wallace. Ci nuotiamo dentro (fatture, scorte, ticket, preventivi, ordini) ma fatichiamo a chiamarla per nome, a usarla per scegliere, a farne cultura.

La cultura del dato non è una collezione di dashboard brillanti; è il modo in cui, quando nessuno guarda, prendiamo decisioni. Se al primo segnale di pressione torniamo all’istinto, al “si è sempre fatto così”, il problema non è tecnico ma umano: fiducia, abitudini, paure, incentivi.

È qui che tanti progetti falliscono: i numeri ci sono, ma non cambiano i comportamenti.

Una formula

Un modo utile per orientarsi è una formula semplice:

IMPATTO = STRATEGIA × FONDAMENTA × CULTURA

La strategia indica la rotta, le fondamenta (qualità, accesso, governance) rendono i dati disponibili, ma è la cultura a trasformare tutto in pratica. Se la cultura vale zero, il prodotto finale è zero: anche l’infrastruttura migliore si sgonfia davanti a riunioni in cui prevale la voce più forte.
Nel tessuto italiano le barriere hanno nomi precisi.

C’è un tema cognitivo: ragionare in probabilità costa fatica, e molte persone si sentono “negate per i numeri”. Non aiuta che circa un terzo degli adulti italiani resti intrappolata in un livello di competenze matematiche molto basilari, con difficoltà a leggere grafici o a comporre più passaggi logici.

In molti casi il titolare accentra l’informazione, la vede come un segreto di famiglia, non come un bene condiviso. Risultato: poca democratizzazione del dato e processi che non imparano da ciò che misurano.

C’è poi la dimensione strutturale: microimprese numerosissime (la statistica nemmeno zombie, ma proprio di vivo morente, che vede una percentuale molto superiore al 90% di microimprese da decenni), risorse scarse, pochi ruoli dedicati a controllo di gestione o analisi, bassa adozione di strumenti di analytics rispetto alla media UE.

Non è solo questione di costi: mancano tempo, competenze e (soprattutto) una narrativa aziendale che trasformi il dato da ansia da prestazione ad alleato quotidiano.
 

Come si vince la resistenza

Primo: trattiamo la cultura come una trasformazione organizzativa, non come un corso di software. Servono tre “T”: tempo per apprendere, fiducia (sarebbe “trust” in inglese) per sperimentare senza paura di sbagliare, training continuo e agganciato al lavoro reale.

Secondo: rendiamo visibile e gratificante socialmente il comportamento data-driven. Questo si fa, per esempio, chiedendo “cosa dicono i dati?” in apertura di riunione, celebrando chi intercetta un’anomalia in anticipo, legando premi e avanzamenti all’uso consapevole delle evidenze.

Terzo: attiviamo loop di feedback che chiedano cosa ostacola l’uso dei report, misurino le decisioni cambiate grazie ai dati e diffondano microstorie di successo tra pari.

Per le PMI, la porta d’ingresso è negli Small Data di casa.
Non serve partire dall’IA: basta un quaderno ben tenuto in digitale

Un laboratorio artigiano che mappa i tempi delle fasi produttive scopre colli di bottiglia; un negozio che traccia per categoria e settimana vede stagionalità e margini reali; un’officina che monitora resi e cause evita sprechi ricorrenti.

Il senso è creare “apprendimento a basso sforzo” al margine, come piace dire a noi economisti. Piccole vittorie che sbloccano curiosità e fiducia.

Il passo successivo è condividere: quei numeri non restino nel cassetto del capo, ma entrino nei rituali di team (retrospettive, planning, stand-up). Da “segreto” a lingua franca.
 

L'ecosistema può aiutare

Le Camere di Commercio, i PID, gli EDIH (Poli Europei di Innovazione Digitale) e i competence center offrono percorsi e assesment per PMI; università e ITS possono portare in azienda progetti e analisi concrete.
E quando il singolo è troppo piccolo, si vince in rete: consorzi e distretti che condividono piattaforme, standard e metriche di settore hanno già dimostrato che l’innovazione “a grappolo” è possibile anche in Italia.

Sul fronte della mentalità, mettiamo in tasca tre regole semplici (e anticiniche) proposte da Tim Harford, e qui mi permetto di consigliare la lettura del suo Data Detective:

  • *Be calm.* Le emozioni deformano le misure; calmi si vede meglio (e si evitano grafici “furbetti”).
  • *Get context.* Un numero senza contesto è un indovinello: chiediamo cosa manca, quali basi di confronto, quale definizione.
  • *Be curious.* La curiosità è il vaccino contro la manipolazione: niente cultura del sospetto come sport, ma domande genuine per capire.

Sono regole nate per non farsi infinocchiare dai numeri… e per usarli con fiducia quando servono.
 

Promemoria

Infine, un promemoria operativo per chi guida una piccola impresa:

  • definite pochi KPI “di mestiere”, con nomi chiari e un responsabile;
  • documentate le definizioni (cosa conta in “cliente attivo”?);
  • costruite un mini-playbook decisionale (quali dati guardiamo prima di cambiare prezzo? quando rivediamo la scelta?).

È il modo concreto per rendere concreta quella formula cultura × fondamenta × strategia e far sì che la discussione non si areni sul “parliamo di numeri o di business?”, perché i due diventano la stessa conversazione.

Potrei chiudere da economista con una curva elegante o un riferimento accademico; preferisco un vero (beh, letterario ma insomma…) detective:

«“Data! data! data!” he cried impatiently. “I can’t make bricks without clay.”»
“Dati! Dati! Dati! si lamentò con impazienza, non posso fare mattoni senza argilla”.
E qui l’auto-ironia è d’obbligo.

Lo so, caro imprenditore, forse ti ho stancato: un altro intellettuale che spiega cosa “dovresti fare”. Ma il punto non è fare i compiti a casa: è rendere naturali due o tre abitudini che ti aiutano a fatturare meglio, non a vivere peggio.
Elementare… anzi, artigianale, Watson!