Una formula
Un modo utile per orientarsi è una formula semplice:
IMPATTO = STRATEGIA × FONDAMENTA × CULTURA
La strategia indica la rotta, le fondamenta (qualità, accesso, governance) rendono i dati disponibili, ma è la cultura a trasformare tutto in pratica. Se la cultura vale zero, il prodotto finale è zero: anche l’infrastruttura migliore si sgonfia davanti a riunioni in cui prevale la voce più forte.
Nel tessuto italiano le barriere hanno nomi precisi.
C’è un tema cognitivo: ragionare in probabilità costa fatica, e molte persone si sentono “negate per i numeri”. Non aiuta che circa un terzo degli adulti italiani resti intrappolata in un livello di competenze matematiche molto basilari, con difficoltà a leggere grafici o a comporre più passaggi logici.
In molti casi il titolare accentra l’informazione, la vede come un segreto di famiglia, non come un bene condiviso. Risultato: poca democratizzazione del dato e processi che non imparano da ciò che misurano.
C’è poi la dimensione strutturale: microimprese numerosissime (la statistica nemmeno zombie, ma proprio di vivo morente, che vede una percentuale molto superiore al 90% di microimprese da decenni), risorse scarse, pochi ruoli dedicati a controllo di gestione o analisi, bassa adozione di strumenti di analytics rispetto alla media UE.
Non è solo questione di costi: mancano tempo, competenze e (soprattutto) una narrativa aziendale che trasformi il dato da ansia da prestazione ad alleato quotidiano.
Come si vince la resistenza
Primo: trattiamo la cultura come una trasformazione organizzativa, non come un corso di software. Servono tre “T”: tempo per apprendere, fiducia (sarebbe “trust” in inglese) per sperimentare senza paura di sbagliare, training continuo e agganciato al lavoro reale.
Secondo: rendiamo visibile e gratificante socialmente il comportamento data-driven. Questo si fa, per esempio, chiedendo “cosa dicono i dati?” in apertura di riunione, celebrando chi intercetta un’anomalia in anticipo, legando premi e avanzamenti all’uso consapevole delle evidenze.
Terzo: attiviamo loop di feedback che chiedano cosa ostacola l’uso dei report, misurino le decisioni cambiate grazie ai dati e diffondano microstorie di successo tra pari.
Per le PMI, la porta d’ingresso è negli Small Data di casa.
Non serve partire dall’IA: basta un quaderno ben tenuto in digitale
Un laboratorio artigiano che mappa i tempi delle fasi produttive scopre colli di bottiglia; un negozio che traccia per categoria e settimana vede stagionalità e margini reali; un’officina che monitora resi e cause evita sprechi ricorrenti.
Il senso è creare “apprendimento a basso sforzo” al margine, come piace dire a noi economisti. Piccole vittorie che sbloccano curiosità e fiducia.
Il passo successivo è condividere: quei numeri non restino nel cassetto del capo, ma entrino nei rituali di team (retrospettive, planning, stand-up). Da “segreto” a lingua franca.
L'ecosistema può aiutare
Le Camere di Commercio, i PID, gli EDIH (Poli Europei di Innovazione Digitale) e i competence center offrono percorsi e assesment per PMI; università e ITS possono portare in azienda progetti e analisi concrete.
E quando il singolo è troppo piccolo, si vince in rete: consorzi e distretti che condividono piattaforme, standard e metriche di settore hanno già dimostrato che l’innovazione “a grappolo” è possibile anche in Italia.
Sul fronte della mentalità, mettiamo in tasca tre regole semplici (e anticiniche) proposte da Tim Harford, e qui mi permetto di consigliare la lettura del suo Data Detective:
- *Be calm.* Le emozioni deformano le misure; calmi si vede meglio (e si evitano grafici “furbetti”).
- *Get context.* Un numero senza contesto è un indovinello: chiediamo cosa manca, quali basi di confronto, quale definizione.
- *Be curious.* La curiosità è il vaccino contro la manipolazione: niente cultura del sospetto come sport, ma domande genuine per capire.
Sono regole nate per non farsi infinocchiare dai numeri… e per usarli con fiducia quando servono.
Promemoria
Infine, un promemoria operativo per chi guida una piccola impresa:
- definite pochi KPI “di mestiere”, con nomi chiari e un responsabile;
- documentate le definizioni (cosa conta in “cliente attivo”?);
- costruite un mini-playbook decisionale (quali dati guardiamo prima di cambiare prezzo? quando rivediamo la scelta?).
È il modo concreto per rendere concreta quella formula cultura × fondamenta × strategia e far sì che la discussione non si areni sul “parliamo di numeri o di business?”, perché i due diventano la stessa conversazione.
Potrei chiudere da economista con una curva elegante o un riferimento accademico; preferisco un vero (beh, letterario ma insomma…) detective:
«“Data! data! data!” he cried impatiently. “I can’t make bricks without clay.”»
“Dati! Dati! Dati! si lamentò con impazienza, non posso fare mattoni senza argilla”.
E qui l’auto-ironia è d’obbligo.
Lo so, caro imprenditore, forse ti ho stancato: un altro intellettuale che spiega cosa “dovresti fare”. Ma il punto non è fare i compiti a casa: è rendere naturali due o tre abitudini che ti aiutano a fatturare meglio, non a vivere peggio.
Elementare… anzi, artigianale, Watson!