Licenziamento per giusta causa e tempestività della contestazione: la sentenza della Cassazione
La tempestività della contestazione disciplinare va valutata con riguardo al momento in cui il datore di lavoro ha avuto piena conoscenza dell’illecito disciplinare: lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza n. 7467/2023 confermando il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice alla quale erano stati contestati gli addebiti delle spese carburante all’azienda datrice di lavoro, utilizzando l’auto aziendale per attività non collegate a quella lavorativa.
Una dipendente, alla quale era stata concessa in uso un’auto aziendale per fini esclusivamente lavorativi, veniva licenziata per aver addebitato alla società datrice di lavoro spese di carburante sostenute per spostamenti privati. Nonostante la dipendente rendicontasse le spese di carburante mensilmente, la società veniva a conoscenza di tali illeciti addebiti soltanto con le verifiche compiute per la chiusura del bilancio relativo all’anno solare 2016.
Presa cognizione dell’inadempimento contrattuale, la società licenziava la lavoratrice.
Il Tribunale di Milano ha ritenuto che tale atto di recesso fosse intempestivo, e ciò sulla base del rilievo per cui la società aveva omesso di effettuare tempestivamente i controlli del caso, con conseguente lesione del diritto di difesa della dipendente.
La Corte di Appello di Milano ha invece accolto il reclamo proposto dalla società, ritenendo che l’immediatezza della contestazione dovesse valutarsi avendo riguardo al momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza dell’inadempimento e non al momento della sua verificazione.
La dipendente ha impugnato la sentenza della Corte di Appello innanzi alla Suprema Corte.
La Suprema Corte ha anzitutto affermato che il principio di immediatezza della contestazione è un’estrinsecazione del più generale principio di buona fede e correttezza; in quanto tale, esso “si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro”.
Esso ha carattere relativo, essendo quindi compatibile con il decorso di un intervallo di tempo più o meno lungo tra la data della verificazione dell’inadempimento e la sua contestazione al lavoratore che lo ha commesso, intervallo sulla cui estensione possono incidere circostanze prettamente fattuali quali la complessità di accertamento della condotta del dipendente o l’esistenza di una articolata organizzazione aziendale.
Al fine di vagliare se un fatto sia stato – o meno – contestato tempestivamente, precisa la Cassazione, si deve tenere conto che il datore di lavoro ha il potere, ma non l’obbligo, “di controllare in modo continuo i propri dipendenti e di contestare loro immediatamente qualsiasi infrazione al fine di evitarne un possibile aggravamento”. Tale obbligo, del resto, non è previsto da nessuna disposizione di legge, né si può desumere dai principi di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c., posto che una sua ipotetica esistenza “negherebbe in radice il carattere fiduciario del lavoro subordinato”. L’affidamento che il datore di lavoro fisiologicamente ripone nella correttezza dell’operato del dipendente, soggiunge la Corte, “non può tradursi in un danno per il datore di lavoro, né può equipararsi alla conoscenza effettiva la mera possibilità di conoscenza dell’illecito, ovvero supporsi” un atteggiamento tollerante del datore, prescindendo dalla prova di una sua effettiva conoscenza degli inadempimenti specifici commessi dal lavoratore. Pertanto, conclude la Corte, “la tempestività della contestazione disciplinare va valutata non in relazione al momento in cui il datore avrebbe potuto accorgersi dell’infrazione ove avesse controllato assiduamente l’operato del dipendente, ma con riguardo all’epoca in cui ne abbia acquisito piena conoscenza”.