Il licenziamento del lavoratore divenuto parzialmente idoneo è illegittimo
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 3147 del 13 novembre 2023, ha affermato che il datore di lavoro, in presenza di un lavoratore divenuto idoneo con prescrizioni, deve cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli atti a consentirgli di svolgere il suo lavoro, pena l’illegittimità del licenziamento intimato.
Nella fattispecie in esame, un soggetto, assunto con mansioni di collaudatore di piatti doccia e ritenuto nel corso del rapporto di lavoro dal medico competente idoneo con prescrizioni, veniva licenziato dalla società datrice di lavoro per “sopraggiunta inidoneità alla mansione”. Ciò, per aver comportato dette prescrizioni una riduzione del 40% della sua produttività rispetto a quella dei suoi colleghi di lavoro.
Il lavoratore impugnava giudizialmente il provvedimento datoriale affinché venisse accertata la sua illegittimità poiché disposto a seguito della sua inidoneità alla mansione.
Il Tribunale adito, all’esito della cosiddetta fase sommaria, annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, con tutte le conseguenze di legge. Secondo il Tribunale
- il datore di lavoro avrebbe dovuto dapprima proporre ricorso amministrativo avverso il giudizio del medico competente, non potendo direttamente licenziarlo;
- la ridotta capacità lavorativa derivante dalle prescrizioni del medico aziendale non avrebbe potuto determinare il suo licenziamento, atteso l’obbligo datoriale di dare attuazione ad esse anche a discapito della sua convenienza economica.
La società ricorreva in appello ma anche la Corte distrettuale rigettava il suo ricorso, ritenendo che le prescrizioni formulate dal medico competente erano da considerarsi oggettivamente “accomodamenti ragionevoli”, non comportando modifiche dei luoghi produttivi né mutamenti organizzativi né costi aggiuntivi.
Le prescrizioni consistevano, infatti, nell’effettuazione delle pause - rispetto a quelle ordinarie - di ulteriori 15 minuti dopo ogni due ore continuative di lavoro e nell’adozione di mascherine respiratorie per le operazioni che avrebbero comportato una maggiore dispersione di polveri.
In tale contesto, la Corte d’appello sottolineava che la materia della sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore deve essere trattata in base alla normativa nazionale e comunitaria, tesa a tutelare il dipendente che si trovi in condizione di “handicap” nella nozione comunitaria del termine, sussistendo sia il presupposto oggettivo dell’attinenza della controversia alle condizioni di lavoro sia il fattore soggettivo dell’handicap. Per la tutela del lavoratore che viene a trovarsi in una situazione di duratura menomazione che non lo ponga in situazione di uguaglianza con gli altri lavoratori, il datore di lavoro, così come disposto dall’art. 5 della Direttiva 78/2000/Ce, deve adottare “soluzioni ragionevoli”, con l’unica eccezione del caso in cui esse “richiedano dal parte di lavoro un onere finanziario sproporzionato”.
In sostanza, secondo la Corte distrettuale, la società avrebbe dovuto cercare soluzioni organizzative e accorgimenti ragionevoli idonei a consentire al lavoratore di svolgere il suo lavoro.
Avverso la decisione di merito la società soccombente adiva la Corte di Cassazione che la confermava, rigettando il ricorso presentato.
Nell’aderire a quanto statuito dalla Corte d’Appello, la Corte di Cassazione ha sottolineato che quand’anche la conservazione del posto del lavoratore comporti costi aggiuntivi in considerazione della sua ridotta produttività (dovuta a ragioni di salute), ciò non sarebbe di per sé sufficiente ad escludere l’esistenza di “accomodamenti ragionevoli”. Accomodamenti che in astratto potrebbero consistere anche nell’adibizione a mansioni inferiore e che vengono meno solo laddove comportino un sacrificio economico sproporzionato del datore di lavoro.