Cassazione: l'inerzia del lavoratore non è motivo per negarne la tutela

Il semplice ritardo o l’inerzia da parte del dipendente nell’esercizio di un proprio diritto non può costituire motivo per negarne la tutela giudiziaria. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 35576 del 20 dicembre 2023.
Nel caso in esame un lavoratore, addetto a turni avvicendati, ha proposto ricorso per decreto ingiuntivo - accolto in primo grado - affinché gli venissero riconosciute le differenze retributive a titolo di maggiorazioni previste dal CCNL Metalmeccanici Industria, applicato al rapporto di lavoro, e mai corrisposte dalla società datrice di lavoro.
La Corte d’appello territorialmente competente, adita dalla società, ha rigettato la domanda proposta dalla società avverso la sentenza di primo grado, ritenendo ininfluente la circostanza che il lavoratore avesse agito a distanza di molto tempo. La società si è così rivolta alla Corte di Cassazione che ha confermato la decisione dei giudici di merito.
Ad avviso della Corte di Cassazione, affinché la volontà tacita di rinunziare ad un diritto risulti effettiva, è necessario che il titolare ponga in essere dei comportamenti concludenti che rivelino una univoca volontà di non avvalersi del diritto stesso.
Dalla mera inerzia o dal ritardo dell’esercizio del diritto non se ne può dedurre la volontà di rinunciare del titolare, potendo essere frutto d’ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, e spiegano rilevanza ai fini dell’eventuale prescrizione estintiva. Da ciò ne deriva che il semplice ritardo nell’esercizio del diritto, sebbene imputabile al titolare, non può costituire motivo per negare la sua tutela giudiziaria, nemmeno nel caso in cui la condotta possa indurre ragionevolmente il debitore a ritenere che il diritto non sarà più esercitato.
Inoltre, continua la Corte di Cassazione, gli usi aziendali possono essere idonei a derogare in melius alla disciplina collettiva e non hanno, invece, alcuna rilevanza nel caso in cui essi prevedano una disciplina peggiorativa della condizione del lavoratore.
La Corte di Cassazione ha ritenuto anche opportuno ribadire che, nel caso di specie, non sussiste una violazione degli obblighi di buona fede da parte del lavoratore, in quanto i principi di buona fede e di correttezza non sono stati manipolati dal dipendente al fine di esercitare slealmente in ritardo il diritto. L'inerzia o il ritardo, di per sé soli, sono insufficienti ai fini di un accertamento circa una volontà abdicativa del titolare.