Cassazione: quando il "tempo tuta" rientra nell'orario di lavoro

Nel caso in esame la Corte d’appello territorialmente competente ha confermato la sentenza di primo grado che aveva dichiarato il diritto dei lavoratori ricorrenti a vedersi incluso nell’orario di lavoro il tempo impiegato nella vestizione e svestizione delle divise aziendali (cosiddetto "tempo tuta"), condannando la società datrice di lavoro a retribuire ciascuno di essi di 10 minuti per ogni giorno di lavoro effettivo a decorrere dal luglio 2007. La società soccombente è ricorsa, quindi in Cassazione.
La Corte di Cassazione adita ha ritenuto la decisione di merito conforme all’orientamento consolidato secondo cui, nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro, il tempo necessario ad indossare gli indumenti aziendali rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro.
In particolare, “occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell'orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell'ambito della disciplina d'impresa (articolo 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell'ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro (...)”
La Corte di Cassazione ha poi continuato rimarcando che “possono (…) determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d'igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell'abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicché non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro” (cfr. Cass. n. 1352/2016, Cass. n. 30958/2022, Cass. n. 7738/2018, Cass. n. 17635/2019, Cass. n. 8627/2020).
Ciò posto in punto di diritto, l’accertamento in ordine al fatto che le operazioni di vestizione e svestizione rientrino o meno, nel caso di specie, nel potere di conformazione della prestazione da parte della società costituisce indagine di competenza del giudice di merito, in quanto tale sottratta al sindacato di legittimità.
La Corte di Cassazione ha anche evidenziato che, se in generale la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole ai dipendenti integra gli estremi dell’uso aziendale, questo quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo che agisce sul piano dei rapporti individuali con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale, presuppone uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro determinati aspetti del rapporto lavorativo. E nell’individuazione di tale intento negoziale non può prescindersi dalla rilevanza dell'assetto normativo positivo in cui esso si è manifestato (cfr. Cass. n. 30958/2022 cit.).
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la società al pagamento delle spese del giudizio.