Digitale e PMI: serve una svolta di visione, non solo strumenti

Le tecnologie ci sono, gli incentivi anche. Eppure, molte piccole e medie imprese italiane faticano ancora a trasformare davvero il proprio modello di business. Per il professor Nicola Lattanzi, ordinario di Strategia e Management per i Sistemi Complessi alla Scuola IMT Alti Studi Lucca, il problema non è l’accesso all’innovazione, ma la mancanza di una cultura strategica capace di integrare il digitale nel cuore dell’impresa.
«Le Pmi italiane, spesso radicate in una cultura d’impresa familiare o artigianale, mantengono una straordinaria capacità produttiva, ma faticano a trasformarla in un sistema adattivo (capace di interpretare i cambiamenti, apprendere da essi e trasformarsi in modo continuo, ndr).
Il problema non è solo tecnologico, è prima di tutto culturale: la tecnologia è vista come un ‘attrezzo’ da adottare, non come un elemento trasformativo del modello di business e generativo di valore. Serve una nuova alfabetizzazione strategica, che riporti al centro la capacità di leggere il cambiamento, integrarlo e farne leva per rigenerare i modelli organizzativi e le relazioni con il mercato» spiega il prof. Lattanzi.
Nel gestire sistemi complessi, la capacità di integrare il digitale nei modelli di business pesa moltissimo. «Non si tratta solo di introdurre soluzioni digitali, ma di saperle armonizzare con l’identità dell’impresa – sottolinea il docente. Le Pmi sono sistemi complessi per definizione: intrecciano persone, relazioni, tradizioni produttive e specificità territoriali. Integrare il digitale vuol dire ripensare i flussi, ridefinire le interfacce con clienti e fornitori, ma anche valorizzare le competenze interne in una logica di apprendimento continuo. È qui che si misura la maturità di un’impresa: nella capacità di non subire la tecnologia, ma di orientarla al proprio disegno strategico».
Ma cosa impedisce alle PMI di cogliere appieno il potenziale trasformativo della digitalizzazione nei loro ecosistemi competitivi? Tre fattori principali:
- una cultura imprenditoriale ancora legata alla logica della sopravvivenza più che della visione;
- una governance spesso centralizzata e poco aperta all’innovazione diffusa;
- una sottovalutazione del capitale umano come leva strategica.
«La digitalizzazione non è un fine in sé, è un abilitatore – evidenzia il professor Lattanzi. Ma se non si ripensano le strutture organizzative, i modelli decisionali e le competenze chiave, ogni investimento digitale rischia di restare un intervento “cosmetico”. Serve un cambio di paradigma, che metta in discussione le certezze passate per costruire nuove capacità di lettura e di adattamento. Occorre lo sviluppo di una capacità di collegamento fra gli elementi per un migliore governo del sistema complesso ‘azienda’».
Anche gli incentivi pubblici, a oggi, non sembrano sufficienti ad attivare un vero cambiamento sistemico. «Gli incentivi pubblici sono spesso benintenzionati ma frammentati, e tendono ad alimentare interventi tattici – sottolinea il docente. Manca una regia capace di accompagnare le imprese in un percorso di medio-lungo termine. Spesso si finanzia l’acquisto di tecnologia senza un’analisi dell’impatto sul modello di business o senza accompagnamento formativo. Il vero salto avverrà quando gli incentivi verranno pensati come strumenti di trasformazione, non di sopravvivenza, e quando verranno integrati con percorsi di affiancamento strategico, formazione manageriale e valutazione dell’impatto trasformativo».
Per affrontare la transizione digitale in modo organico e sostenibile, soprattutto in un contesto economico instabile, le PMI devono superare la logica reattiva.
Secondo Lattanzi, la chiave è passare da una logica reattiva a una logica generativa. «La transizione digitale va affrontata come un processo di riprogettazione, non come una sommatoria di strumenti» dice. Servono cinque leve:
- governance evoluta, capace di includere giovani competenze e favorire la contaminazione tra ruoli;
- formazione continua, che renda il capitale umano protagonista della trasformazione;
- ascolto del territorio, per cogliere bisogni reali e costruire alleanze locali;
- innovazione sostenibile, che tenga conto dell’equilibrio tra efficienza, impatto ambientale e coesione sociale;
- visione strategica, che guidi le scelte tecnologiche e organizzative lungo una traiettoria coerente.
Solo così per il professore la tecnologia smette di essere una risposta ansiosa al cambiamento e diventa parte integrante di un’impresa più consapevole e resiliente.
Annarita Cacciamani