Digitalizzazione industriale: la tecnologia c'è ma le Pmi italiane sanno usarla?

Il contributo del professor Sergio Terzi, docente di Design and Management of Production Systems al Politecnico di Milano

 
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«Non è la tecnologia a mancare. È la capacità di sfruttarla davvero». Non usa giri di parole il professor Sergio Terzi, docente di Design and Management of Production Systems al Politecnico di Milano, nel fotografare la sfida più urgente che, a suo avviso, attende le piccole e medie imprese italiane: trasformare gli strumenti digitali in valore concreto.

In un sistema produttivo che resta tra i più forti al mondo – l’Italia è ancora oggi tra le prime dieci potenze industriali globali – la digitalizzazione non può più essere considerata un’opzione. È un fattore di sopravvivenza e competizione. Ma tra incentivi raccolti a metà, tecnologie sottoutilizzate e una cultura imprenditoriale ancora restia al cambiamento, molte PMI rischiano di restare indietro. «Chi coglie prima queste opportunità, o lo fa meglio di noi, ne ottiene un vantaggio competitivo netto. Produce prima, meglio, a costi inferiori. E noi restiamo a chiederci come sia possibile» evidenzia il docente.

Prototipare, analizzare, connettere: i tre assi del cambiamento

Il professor Terzi individua tre ambiti chiave in cui la digitalizzazione sta cambiando, o potrebbe cambiare radicalmente, il volto dell’industria manifatturiera italiana.

  1. La prototipazione virtuale«È un settore che mi è molto caro. Le aziende italiane, spesso artigianali e altamente specializzate, oggi possono progettare e testare virtualmente prodotti anche complessi, grazie a strumenti come modellazione 3D, realtà aumentata e simulazione». Il risultato? Più creatività, meno errori, tempi ridotti: “Si possono inventare più cose, più in fretta e con qualità superiore».
  2. La valorizzazione dei dati«Nelle nostre aziende ci sono software e sistemi digitali da anni. Ma spesso non sappiamo come utilizzarli davvero. Abbiamo dati, ma non li estraiamo. Abbiamo informazioni, ma non le organizziamo né le sfruttiamo». L’intelligenza artificiale generativa può aiutare a colmare questa distanza, «trasformando in pochi secondi documenti, relazioni, scenari. Non è magia. È efficienza operativa».
  3. La connettività e l’Internet of Things«In molti casi, grazie agli incentivi di Industria 4.0, abbiamo già portato in azienda macchinari connessi. Ma poi li usiamo solo per accenderli o spegnerli da remoto». La vera rivoluzione è altrove: «Posso far vedere al cliente la mia capacità produttiva in tempo reale, orientare le sue decisioni, offrire servizi aggiuntivi. Ma serve una visione nuova del business».

Numeri alla mano: la digitalizzazione paga

«Non c’è più nulla da dimostrare: gli investimenti in digitale aumentano la produttività – afferma Terzi - . Lo dicono gli indicatori macroeconomici, lo dicono i casi aziendali, lo dimostrano i nostri competitor esteri».
Non è solo teoria. È realtà misurabile. E anche in Italia ci sono esempi virtuosi. Ma sono ancora l’eccezione, non la regola.

Il punto, secondo Terzi, è che l’innovazione tecnologica va governata e accompagnata nel tempo. Non basta acquistare una macchina nuova o adottare un software: «Serve costanza, competenze, capacità di visione. Tutto ciò che, purtroppo, manca spesso nelle Pmi italiane».

L’ostacolo più grande? La cultura organizzativa

Molto più del budget o degli incentivi, è la mentalità imprenditoriale a fare la differenza. Secondo il professore del Politecnico di Milano, «il vero limite non è economico. È culturale».
Nelle piccole imprese, chi guida l’azienda non ha tempo – e spesso nemmeno gli strumenti – per fermarsi a riflettere su come innovare: «Vive alla giornata, e così facendo rischia di perdere terreno» osserva il docente.
Inoltre, esiste a suo dire un problema di linguaggio: «I fornitori di tecnologie parlano di soluzioni, non di problemi. E il mercato dell’innovazione fatica a parlarsi con quello della produzione».

La generazione del cambiamento: non è solo questione d’età

C’è poi il tema del passaggio generazionale. «Certo, i giovani hanno più confidenza con la tecnologia, ma non è sempre detto che siano loro i portatori dell’innovazione” commenta il docente.
Terzi mette in guardia da facili generalizzazioni: “Ho incontrato imprenditori sessantenni più proiettati al futuro dei loro figli. Non è l’anagrafe a fare la differenza, ma la visione».

La forza della rete: confronto, contaminazione, coraggio

L’Italia è fatta di distretti, filiere, associazioni. Una rete che, se ben attivata, può diventare motore di cambiamento. «Quando un’impresa innova e funziona, spesso se ne porta dietro altre. È un meccanismo virtuoso, che fa parte del nostro DNA industriale» evidenzia.

Il confronto tra imprese, secondo Terzi, è essenziale: «Bisogna superare la paura di mettersi in discussione. Il vero nemico non è l’azienda accanto, è la concorrenza globale».

Una chiamata all’azione: serve visione, non reazione

Non ci sono scorciatoie. La trasformazione digitale non può essere affrontata come una moda passeggera o un progetto da relegare all’ufficio IT. È una strategia aziendale che va costruita nel tempo, condivisa e compresa da tutta l’organizzazione.

«Possiamo anche decidere di non cambiare - conclude Terzi - ma mentre noi restiamo fermi, il mondo va avanti. E chi innova meglio e prima di noi, ci supera».


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