I dati come motore della conoscenza aziendale

Tracciabilità, gestione centralizzata e formazione del personale le chiavi per mettere a valore i dati raccolti

dati aziendali

I dati oggi hanno un grandissimo valore. La “cultura del dato” in azienda deve partire da una solida base di raccolta e organizzazione. Come spiega il professor Claudio Sartori, ordinario di Machine Learning e Data Mining, all’Università di Bologna, il primo passo deve essere pragmatico: «I dati amministrativi, spesso raccolti per obblighi fiscali o legali, vanno messi in sicurezza, storicizzati, memorizzati in maniera ordinata e protetti dagli attacchi. L’azienda deve fare uno sforzo per “mettere ordine in casa”». «È sbagliato chiedersi a priori quali dati raccogliere – prosegue il docente. Una Pmi dovrebbe rilevare e conservare con ordine tutti i dati che coinvolgono la propria attività».

Dal problema alla soluzione, non il contrario

Un errore comune nelle Pmi è partire dai dati invece che dai problemi reali dell'azienda. Il professore fa un esempio «Spesso si sente dire: “Ho questi dati, cosa ci posso fare?”. Ma questo è come lanciare una rete a caso sperando di pescare qualcosa. È fondamentale, invece, che il responsabile individui le proprie aree di sofferenza – che siano clienti, approvvigionamento o processi interni – e da lì risalire a quali dati possono essere utili per migliorare». L’approccio corretto, per Sartori, parte quindi, dall'esigenza concreta e si muove verso l’analisi.

Strumenti accessibili, soluzioni alla portata

Oggi le Pmi non hanno più scuse: le tecnologie per gestire e analizzare i dati sono disponibili, economiche e spesso anche intuitive. «Le grandi piattaforme come Google, Amazon Web Services e Microsoft offrono strumenti facilmente accessibili. Non serve acquistare hardware costoso: per iniziare, ciò che è disponibile nel cloud è sufficiente». Certo, per progetti più avanzati si può richiedere il supporto di consulenti, ma Sartori avverte: «Anche in quel caso, l’impresa deve sapere cosa chiedere, avere una cultura minima per valutare la proposta ricevuta, altrimenti rischia di legarsi mani e piedi a un fornitore».

La qualità dei dati comincia da chi li raccoglie

Per rendere i dati affidabili, l’attenzione va posta sull'intero processo di raccolta. «Bisogna dotarsi di software certificati e affidabili, in grado di guidare l’inserimento e ridurre gli errori. Ad esempio, se devo registrare un comune di residenza, non devo scriverlo a mano, ma sceglierlo da una lista». È banale, ammette, «ma ancora troppo spesso ignorato». E soprattutto: «Il personale va sensibilizzato e responsabilizzato. Chi inserisce i dati manualmente deve farlo con cura. Servono tracciabilità e gestione centralizzata. Vedo troppe Pmi che tengono dati critici in fogli Excel duplicati e sparsi: così non si sa mai quale versione è quella corretta. I dati non sono un ausilio: sono il motore della conoscenza aziendale».

Le aree dove usare i dati fa subito la differenza

Non tutte le aree aziendali offrono gli stessi ritorni quando si inizia a lavorare con i dati, ma ci sono ambiti dove è più facile ottenere risultati concreti in tempi brevi. «Ogni azienda ha le sue peculiarità», premette Sartori, «ma ci sono settori in cui l’impatto può essere rapido e visibile».

In particolare, si possono ottenere benefici misurabili in tempi ragionevoli intervenendo su:

  • Gestione dei clienti e vendite: dalla segmentazione della clientela, pratica ormai consolidata da decenni, alla creazione di comunicazioni più efficaci e personalizzate.
  • Ottimizzazione degli acquisti: attraverso un’analisi attenta dei costi, della disponibilità dei fornitori e dell’andamento dei prezzi delle materie prime.
  • Monitoraggio del mercato: per adattare tempestivamente strategie e prezzi alle variazioni del contesto economico.

«In alcuni casi – spiega – se ho già dei dati di discreta qualità e riesco a focalizzare bene un problema, in tre mesi posso definire un progetto e magari in sei mesi metterlo in produzione». Un altro fronte promettente è quello dell’intelligenza artificiale generativa, che sta aprendo nuove possibilità anche per realtà molto piccole: «Non servono esperti informatici – precisa – ma persone che conoscano bene il loro settore e abbiano creatività. Anche senza una struttura super digitalizzata, è possibile usare questi strumenti per gestire cataloghi, descrivere prodotti o comunicare meglio con i clienti».

La cultura del dato: condizione imprescindibile

Ma tutto questo ha senso solo se l’impresa ha una cultura del dato. «Qualunque dipendente che lavora con i dati deve capire che si tratta di un bene aziendale. Va custodito, protetto e mantenuto integro. Se manca questa consapevolezza, non si può nemmeno iniziare a parlare di approccio data-driven». E su come promuovere questo approccio anche in contesti poco digitalizzati, Sartori è netto: «Se il contesto non è digitalizzato, deve diventarlo. Altrimenti l’approccio data-driven resta teorico. Certo, in qualche caso, l’AI generativa può sopperire, ma non è la strada principale».

Formazione e autonomia: il valore che resta

Infine, il professore insiste sull’importanza della formazione interna: «Un’azienda piccola non può avere tutte le competenze in casa, quindi dovrà affidarsi a consulenti. Ma quando lo fa, deve pretendere documentazione, formazione del personale e trasferimento del know-how. Se il consulente mi dà solo del software, resterò dipendente da lui per sempre». «È come comprare un anello prezioso senza capirne nulla: il venditore può raccontarmi qualsiasi cosa. Ma se ho una minima conoscenza, posso fare scelte migliori. E questo vale anche per i dati» conclude Sartori.

Annarita Cacciamani
Social brand journalist

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